Ho la partiva Iva dal 2005. 10 anni. 10 anni in cui ho imparato tanto; ho imparato che avere una partita Iva significa mettersi in gioco tutti i giorni, come lavoratrice e come persona; ho imparato che la conciliazione tra lavoro e famiglia è possibile, ma estremamente faticosa; ho imparato che bisogna avere molta forza di volontà e contare soprattutto sulle proprie risorse personali perché l'Italia non è un Paese che premia la libera professione. Le tutele praticamente non esistono; per esempio, non puoi ammalarti e devi essere performante sempre, anche se sempre non è possibile. Qualche volta mi arrabbio, e molto. Altre sono sfiduciata. Altre ancora, faccio appello a tutto l'ottimismo di cui sono capace e vado avanti...
Prendo spunto dalla piacevole
conversazione telefonica avuta la settimana scorsa con Francesca Guinand di
Lettera43, sul tema mamme freelance e lavoro, per raccontare la mia storia di mamma con partita Iva e, se tu che
stai leggendo, vorrai raccontarmi la tua, ne sarò molto felice. Parlarne, forse,
aiuterà a smuovere qualcosa.
Quando nel 2005 ho aperto la
partita Iva l’ho fatto solo perché sentivo una notevole spinta verso il lavoro
autonomo. Sono una libero professionista per vocazione. Avevo un bellissimo
lavoro, in un’azienda piena di persone simpatiche, ma volevo fare un passo avanti e lavorare per me stessa. Sono un’autonoma
convinta; nell'immaginario comune aprire una partita Iva è spesso una costrizione (sto pensando alle finte partite Iva) o un ripiego; nel mio caso, si è trattato di una scelta. Sapevo che c'erano molti rischi, ma ho voluto provarci. I primi anni è andata abbastanza bene; nel 2005 l’economia
girava ancora decentemente. E poi non avevo figli; se dovevo portare a termine
un progetto potevo lavorare anche il sabato e la domenica e potevo permettermi
di non avere orari. Nel 2006 ho cambiato città, ma sono una traduttrice e il
mio lavoro è trasportabile: posso lavorare per chiunque e ricevere commesse da
qualsiasi parte del mondo.
Nel 2008 sono diventata mamma.
Stavo lavorando a un progetto bellissimo, ma ho deciso di interrompere e di
beneficiare del congedo parentale di 5 mesi. Ho preso un assegno di maternità ridicolo
e ho perso diversi clienti. I clienti non ti aspettano 5 mesi. Anche se, a dir
la verità, alcuni, i più fedeli, al mio ritorno hanno ripreso ad assegnarmi
commesse. Sono stata fortunata.
Tra il 2008 e il 2012 ho lavorato
poco, per scelta. Volevo dedicarmi anche a mia figlia. Lavorando solo part-time, ovviamente, ho guadagnato meno. E, così,
quando nel 2012 sono rimasta nuovamente incinta e ho chiesto un assegno di
maternità all’INPS, mi è stato negato pure l'assegno ridicolo perché, avendo lavorato part-time, non
avevo versato abbastanza contributi (pur avendoli versati su ogni singolo centesimo guadagnato). La mia seconda gravidanza non è stata
semplice e, dunque, a un certo punto ho rallentato molto, nella prospettiva di allontanarmi comunque per un po' dal lavoro, pur sapendo che non avrei percepito un
euro. Bè, sapete com’è andata? Mi hanno chiamata per una breve supplenza in una
scuola (sono iscritta in terza fascia) e… quell’assegno di maternità che mi era stato negato da traduttrice con
partiva Iva, mi è stato concesso da insegnante precaria. Mi sono sentita baciata
dalla fortuna (e ho ringraziato la divina provvidenza), però ho provato anche tanta rabbia. Perché - mi sono chiesta - come insegnante precaria ho (giustamente) avuto diritto a un assegno di maternità, mentre come libero professionista part-time no?
Chissà se qualcuno potrà rispondere a questa domanda e soprattutto chissà se arriverà il giorno in cui anche noi mamme con partite Iva avremo qualche tutela in più.
E… a proposito di mamme con
partita Iva, vi invito a leggere questo articolo di Francesca Guinand diLettera43, che ringrazio per la bella conversazione telefonica e per avermi citata.
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