mercoledì 21 marzo 2012

Quando la notte e l'importanza di parlarne

Finalmente ho visto Quando la notte, di Cristina Comencini. Non ho ancora letto il romanzo, ma avevo voglia di vedere questo film da quando è uscito.
Avevo letto le critiche feroci e avevo letto delle risate durante la proiezione per gli addetti ai lavori alla mostra del cinema di Venezia. Il film è stato massacrato dai critici, ma, da modesta spettatrice, posso solo dire che mi ha emozionata.
È un film intenso, che ti tiene con il fiato sospeso per tutto il tempo; la tensione non ti molla mai. Un film che mi è rimasto sulla pelle. È molto bello quando ti lasci raccontare una storia e quella storia continua a parlarti per un po’. Non capita spesso.
E comunque questo post non vuole esprimere il mio pensiero sul film. Vuole prendere Quando la notte come un invito ad affrontare il lato più difficile della maternità, quello oscuro, perché non se ne parla mai abbastanza.
Essere madri, lo sappiamo tutte, può essere meraviglioso, ma può essere anche devastante; spesso è meraviglioso e devastante insieme. Non c’è una sola faccia della medaglia e i primi due anni di vita dei bambini sono difficili. Ci vuole molto equilibrio psicologico per affrontarli; ci vuole, per la verità, anche qualche angelo custode.
A un certo punto, nel film, Marina (Claudia Pandolfi) si addormenta sul pavimento, esausta, dopo due giorni in cui è stata costretta a restare chiusa in casa con il suo bambino insonne e urlante. Ecco, in quel momento, io ho pensato che sarebbe potuto succedere anche a me di addormentarmi per terra, o su un divano, o su una sedia, ovunque … Se non è capitato è stato perché ho avuto qualche angelo custode. Ludovica, per i primi due anni della sua vita, ha dormito pochissimo, e quasi mai di notte, come avevo scritto nel mio vademecum per mamme di bambini che non dormono.
Ludovica ha urlato moltissimo nei primi due anni della sua vita; il lamento acuto e continuo del proprio bambino è forse il suono più devastante e snervante che un essere umano possa sperimentare. Qualche volta ho avuto l’impulso di aprire la porta e scappare, ho avuto voglia di mettermi a correre a perdifiato, senza meta, per sfogare tutta la mia frustrazione. Quando mi succedeva, avevo un metodo: staccavo la spina. Se non c'era mio marito chiamavo mia suocera e uscivo, anche solo per 20 minuti. Mi bastava andare a comprare il pane per tornare come nuova.
Le mie difficoltà sono state limitate, ma so che il disagio esiste. Trattare più spesso questo tema, parlarne, dirsi, tra madri, che certi giorni è proprio una lotta, a me sembra un po' come tendersi una mano. Parlarne, chiedere aiuto, non è sintomo di debolezza. Anzi, al contrario; io credo che, nella difficoltà, nel disagio, lanciare il proprio SOS sia l'unica cosa da fare.
Nel film, a un certo punto, il disagio di Marina degenera, ma Marina è una donna che ama il suo bambino, è una donna come tante. E allora perché? Come può accadere? Ecco, forse, parlarne può aiutare le mamme in difficoltà a trovare il coraggio per dire "non ce la faccio". Certe volte dire "non ce la faccio" è la salvezza. 

2 commenti:

  1. Parliamone sempre.
    Ne ho scritto anche io qui: http://moto-perpetuo.blogspot.it/2011/11/parliamone.html.
    Grazie per il tuo contributo, spero di vedere presto il film, o meglio ancora di leggere il libro.

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    1. Ho letto il tuo post: è molto bello ed è molto vero...

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